Onorevoli Colleghi! - Nel mondo circa 1,2 miliardi di persone, e cioè circa un quarto della popolazione mondiale, vive, o meglio tenta di sopravvivere, con meno di un dollaro al giorno, cioè in condizioni di povertà assoluta. I dati sulla povertà a livello globale, provenienti dalla Banca mondiale, ci dicono che quasi 300 milioni di persone non hanno cibo a sufficienza, e circa 500 milioni di individui soffrono di malnutrizione cronica. Più del 93 per cento del totale della popolazione affetta da AIDS vive nei Paesi in via di sviluppo.
      Oltre 840 milioni di adulti nel mondo sono analfabeti e 160 milioni di bambini in età prescolastica sono sotto peso. I dieci miliardari più ricchi del mondo possiedono una ricchezza netta di 133 miliardi di dollari: oltre 1,5 volte il reddito nazionale totale dei paesi meno sviluppati.
      Appena l'1 per cento del reddito globale sarebbe sufficiente per eliminare (in termini prettamente matematici) in modo radicale la povertà.
      Questi sono solo alcuni dei numeri che si riferiscono a una grave malattia economica chiamata disuguaglianza: si tratta di un morbo che genera povertà, marginalità ed esclusione sociale, e che colpisce soprattutto i Paesi cosiddetti «in via di sviluppo», quelli cioè che soffrono dello smisurato divario economico che divide in modo drammatico il nord dal sud del mondo. Esso, però, non lascia certo immuni i Paesi più avanzati.
      Non è infatti trascurabile il dato che vede nei Paesi industrializzati oltre 100 milioni di persone vivere sotto la soglia della povertà. Più di 5 milioni di persone, inoltre, sono senza tetto e il numero dei disoccupati si aggira intorno ai 37 milioni.

 

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      Analizzando, anche in modo non eccessivamente approfondito, le più recenti statistiche effettuate a livello europeo non si può fare a meno di rilevare, da parte delle società occidentali avanzate e industrializzate, una generalizzata e diffusa incapacità di arginare e circoscrivere a proporzioni minime il fenomeno della povertà. Nonostante alcuni successi (la percentuale totale delle persone che vivono in povertà nel mondo si è ridotta più rapidamente negli ultimi cinquanta anni che nei precedenti cinquecento, il tasso di mortalità dal 1960 ad oggi è diminuito di oltre la metà e il tasso di malnutrizione è diminuito di quasi un terzo), è necessario prendere atto che le grandi terapie del secolo non hanno ottenuto esattamente i risultati sperati o che, quantomeno, non sono state decisive nella lotta contro la povertà. Questo ha comportato che nonostante il costante aumento degli indicatori aggregati di reddito e di consumo le disuguaglianze sociali siano rimaste fortissime.
      Un numero molto, sicuramente troppo, elevato di persone continua a stazionare persistentemente in fondo alla scala del benessere, fortemente distaccato e malamente attrezzato per recuperare il cammino perduto in termini di qualità della vita e di dignità sociale.
      In Europa, se si considera una misurazione in termini di povertà assoluta, i dati Eurostat ci dicono che il 22 per cento della popolazione portoghese è composta da «poveri», seguita dal 21 per cento della popolazione greca. L'Italia e il Regno Unito contano circa un 19 per cento di poveri (in realtà c'è una discrepanza sul dato italiano tra la statistica Eurostat e il rapporto ISTAT), superando addirittura l'Irlanda e la Spagna con il loro 18 per cento. È la Danimarca la nazione con la minore percentuale di popolazione costretta a vivere in condizioni di povertà (11 per cento) davanti a Olanda e Lussemburgo (12 per cento) e Austria (13 per cento). La povertà, nelle società sviluppate come quelle europee, appare in realtà come un fenomeno di massa, caratterizzato da una natura «multidimensionale»; essa si presenta, infatti, come una fonte multipla di emarginazione sociale: i più poveri, quelli che vivono in condizioni economiche estremamente disagiate, quelli senza una casa, coloro che vivono nei ghetti vengono nei fatti tenuti forzatamente fuori dai servizi, dalla società e dalla vita economica, culturale e sociale dell'ambiente in cui vivono.
      Essere esclusi significa non avere appartenenza, vuol dire rompere, progressivamente, con i legami classici, i più solidi, i più significativi, come la casa, la famiglia, la scuola, il lavoro. Nei percorsi di impoverimento si indeboliscono i supporti tradizionali dell'identità, si procede lentamente fuori dai rapporti, dai circuiti e dai meccanismi che tengono l'individuo legato al sistema considerato nella sua completezza. Essere poveri, nelle società moderne, oltre a rappresentare essenzialmente una condizione materiale, misurabile dunque in termini e secondo indicatori economici, è anche una dimensione «etica»: il povero è il perdente, è colui il quale, nella competizione quotidiana e nei meccanismi selettivi propri di ogni comunità, viene lasciato indietro, «eliminato» dal tessuto sociale, tenuto fuori da ogni processo produttivo, culturale e sociale. Non a caso la marginalità confina molto spesso con forme di distorsione sociale e di criminalità, e spessissimo le genera, fornendo terreno fin troppo fertile alle tentazioni antisociali dell'individuo e del gruppo: basti pensare alla criminalità giovanile, alle violenze in famiglia, al reclutamento da parte delle associazioni tipiche della criminalità organizzata (non ultima, in Italia, quella di stampo mafioso). La povertà è infatti certamente un fenomeno contiguo al «rischio sociale», che lo integra e di cui si alimenta.
      Una società con un basso grado di povertà è dunque, senza ombra di dubbio, anche una società più «sicura».
      Per moltissimo tempo la povertà è stata considerata dagli uomini di governo, dagli analisti e dagli economisti come un fatto endemico e ineliminabile, se non addirittura come un male necessario, connaturato
 

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a qualunque sistema economico e sociale.
      In questo momento storico, però, uno Stato che si consideri moderno, sano e democratico non può assolutamente permettersi di considerare tale fenomeno come qualcosa di ineluttabile, ma deve anzi attrezzarsi in maniera responsabile per combatterlo, e porsi obiettivi ambiziosi che mirino a sconfiggerlo in modo definitivo. Lo sviluppo è sicuramente una delle possibili risposte al problema dell'esclusione sociale: esso è infatti il processo sociale attraverso il quale le comunità organizzate cercano di dare risposta ai propri bisogni; esso, però, si qualifica «umano» se ha come scopo la soddisfazione equilibrata dei diversi bisogni di tutte le persone, e come sostenibile se la soddisfazione di oggi non pregiudica quella di domani. Per la prima volta dopo anni la maggior parte dei Governi del mondo, dopo i grandi vertici mondiali degli anni novanta, in particolare dopo il vertice sullo sviluppo sociale di Copenaghen (la cosiddetta «piattaforma dello sviluppo mondiale» è sintetizzata nella dichiarazione e programma di azione del vertice mondiale sullo sviluppo sociale tenutosi a Copenaghen nel marzo 1995, sottoscritta da tutti i governi del mondo), hanno riconosciuto la lotta contro l'esclusione sociale come parte integrante delle politiche generali di sviluppo.
      Anche le istituzioni europee negli ultimi anni hanno dimostrato di aver preso coscienza della gravità, della complessità e soprattutto dell'urgenza del problema, ed è emersa chiaramente dagli ultimi incontri tra gli Stati che compongono l'Unione europea la necessità di inserire la lotta alla povertà all'interno del range di obiettivi strategici primari di ogni Governo.
      Dal documento prodotto dalla Commissione europea in seguito al Consiglio europeo di Lisbona emerge chiaramente che i costi della sottoccupazione, della povertà e dell'esclusione sociale sono enormi: la Commissione europea stima infatti che il sottoutilizzo delle risorse umane disponibili, inclusi i maggiori costi per l'economia, causati dagli sprechi che ne derivano per l'economia (ad esempio in campo sanitario, di lotta alla criminalità eccetera) equivalga a mille o a duemila miliardi di euro all'anno (il 12-20 per cento del prodotto interno lordo). Si tratta di un vero e proprio cancro per la società europea, ed è imperativo adesso trovare il modo di utilizzare in maniera più produttiva le risorse sprecate. Bisogna dunque passare dall'approccio attuale, che si limita a tappare a posteriori le falle dell'emarginazione sociale ad un'impostazione nella quale l'inclusione sociale entri a far parte integrante di ogni decisione politica. Nel contempo l'Europa deve affrontare la notevole sfida dell'invecchiamento della popolazione, con le sue implicazioni per la sostenibilità del welfare dei nostri Paesi e dei sistemi pensionistici. Il modello sociale europeo deve, pertanto, essere tale da poter realizzare tutto il potenziale della società del sapere. Ogni società, ogni sistema, anche a livello mondiale, ha bisogno di non affidarsi solamente ed esclusivamente ai meccanismi del mercato per puntare a sconfiggere la povertà: oltre alla libertà degli scambi e della libera circolazione delle persone contano gli obiettivi legati alla qualità e alla dignità dell'esistenza.
      Come ha affermato Jacques Delors in un discorso a un seminario sulla povertà tenutosi a Roma in occasione del Giubileo, il traguardo che una regolamentazione in materia di povertà dovrebbe porsi, di pari passo con quello legato a una ottimale allocazione delle risorse in nome dell'efficienza, dovrebbe essere anche quello di arrivare a una ridistribuzione della ricchezza e delle opportunità secondo un orientamento scelto in precedenza in materia di giustizia sociale, e assecondando determinati processi democratici. Un altro obiettivo fondamentale dovrebbe essere quello di garantire ad ogni cittadino una concreta libertà di partecipazione alla vita sociale e alla elaborazione delle decisioni politiche, e di cercare una qualche stabilità nello sviluppo economico che, però, funzioni contemporaneamente anche nell'ambito delle sfere sociali e politiche, per mezzo dell'attuazione di procedure di prevenzione
 

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dei conflitti e dei disequilibri, o che passi, ancora meglio, per la loro risoluzione. È inoltre importante che nell'elaborare politiche di contrasto si prenda coscienza del fatto che la povertà e l'esclusione sociale non sono da considerare fenomeni «statici», ma che, anzi, essi sono in continuo e progressivo movimento. La loro natura dinamica richiede che le politiche che le riguardano siano attente ai loro cambiamenti morfologici, accogliendo sempre nuove sfide, e scegliendo, di volta in volta, tra politiche «attive» e «passive» di lotta alla povertà, oppure, laddove necessario, una adeguata combinazione tra esse. Le politiche passive di lotta alla povertà si prefiggono l'obiettivo di supplire a una situazione accertata, o quantomeno presunta, di carenza di risorse economiche. All'estremo opposto si pongono invece, gli interventi che hanno l'obiettivo di incidere direttamente sui comportamenti che si ritiene che causino le situazioni osservate di povertà e di esclusione sociale, ad esempio gli interventi per la socializzazione a favore dei giovani a rischio, o la formazione professionale a favore dei disoccupati.
      Tra la pura politica attiva e la pura politica passiva troviamo molteplici situazioni intermedie in cui l'intervento ha una molteplicità di obiettivi, di vario tipo, alcuni di tipo attivo, altri di tipo passivo. Un caso tipico di intervento intermedio può essere considerato quello di alcuni tipi di fornitura di servizi: l'assistenza domiciliare agli anziani, ad esempio, intende, come obiettivo primario rendere migliore le condizioni di vita dei beneficiari, ma, allo stesso tempo, diminuire il rischio (con il conseguente annesso «costo sociale»). Un altro esempio è quello della predisposizione di strutture di prima accoglienza per i senza dimora, che, insieme all'obiettivo, da considerare primario, del miglioramento immediato delle condizioni di vita dei senza tetto, presenta quello di agevolare il reinserimento nel mercato del lavoro, per cui, accanto all'intervento, si pone l'obiettivo di supplire a una situazione accertata, o quantomeno presunta, di carenza di risorse economiche.
      Il primo scalino necessario alla elaborazione di una strategia efficace di lotta a tale fenomeno è quello di tentare una definizione della povertà e di individuarne le cause.
      Per capire come ridurre il fenomeno, quali sono i mezzi effettivamente più efficaci per controllarlo e per capire come cambia nel tempo è necessario studiare e, soprattutto, misurare la povertà.
      Generalmente il metodo più comune per determinare le reali dimensioni della povertà è quello che si basa sui livelli di reddito o di consumo: una persona viene considerata povera se i suoi livelli di reddito o di consumo sono inferiori a un livello giudicato minimo necessario a soddisfare le necessità di base (basic needs): è questo il livello minimo che viene chiamato «linea di povertà». Poiché gli strumenti necessari per soddisfare le necessità di base cambiano a seconda delle condizioni storiche, dei tempi, dei luoghi e delle tradizioni, ogni Paese utilizza proprie «linee di povertà», che servono a dividere in maniera netta la popolazione povera da quella non povera.
      Compiendo un'analisi della nostra realtà di riferimento (alla quale è, chiaramente, diretto il campo di azione del presente disegno di legge) dai dati diffusi dall'ISTAT vedremo che nel 1999 la linea di povertà è risultata pari a 1 milione e 492.000 lire mensili correnti (cifra che è calcolata sulla base della spesa media per consumi per persona), rispetto al milione e 476.000 lire nel 1998 e al milione 430.000 lire nel 1997. I dati in questione, nel complesso, disegnano un Paese nel quale il numero dei poveri è andato, in realtà, costantemente crescendo lungo tutto l'arco degli anni ottanta, per poi decrescere gradualmente nel decennio successivo e attestarsi al livello della metà degli anni novanta.
      Nel periodo tra il 1987 e il 1989 l'incidenza della povertà sul totale della popolazione superava il 14 per cento. Nel decennio successivo, fino al 1998, poco meno del 12 per cento delle famiglie italiane, corrispondenti a circa due milioni e mezzo di famiglie e a quasi sette milioni
 

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e mezzo di persone, potevano realmente essere considerate povere.
      Nel 1999, però, sulla base di una rilevazione effettuata su un campione di 21.000 famiglie italiane, è emerso che il fenomeno della povertà ha riguardato l'11,9 per cento dei nuclei familiari, contro l'11,8 per cento del 1998 e contro il 12 per cento del 1997. Le famiglie povere tra il 1998 ed il 1999 sono passate da 2.557.000 a 2.600.000, il che significa che altre 90 mila persone, dunque, sono entrate ufficialmente a far parte della classifica ufficiale dei poveri. I dati analizzati fanno riferimento alla cosiddetta «povertà relativa», a quella misura della povertà, cioè, che misura il tenore di vita di ogni cittadino in relazione a quello degli altri: essa si ottiene analizzando il livello medio dei consumi della popolazione, ed è in realtà un valore convenzionale che misura la distribuzione del reddito, e che cambia ogni anno in relazione alla crescita reale dell'economia.
      Se, invece, si fa riferimento alla «povertà assoluta» (cioè a quella che viene calcolata su un paniere di beni considerati essenziali per una famiglia italiana, come i beni alimentari, l'abitazione o il vestiario, destinato a soddisfare i bisogni minimi e confrontandolo poi con i consumi effettivi), la cifra complessiva scende consistentemente, attestandosi sul 4,4 per cento, cifra che può essere quantificata in circa 950.000 famiglie.
      Se confrontiamo il dato italiano con quello degli altri paesi dell'Unione europea vediamo che il tasso di diffusione della povertà italiana è comunque tendenzialmente in media con quello degli altri Paesi europei. Dall'analisi dei dati provenienti dal rapporto ISTAT, emergono alcuni elementi di novità ai quali deve essere prestata una particolare attenzione. Accanto, infatti, alle fasce di popolazione tradizionalmente a rischio di povertà, quali gli anziani, i nuclei familiari numerosi (con cinque e più componenti) e i disoccupati nel Mezzogiorno, si sono rilevate nuove forme di povertà, che si stanno diffondendo nel Paese anche con una certa velocità: aumentano i poveri tra i lavoratori a basso reddito (i cosiddetti working poor), tra le coppie monoreddito con figli e appartenenti alla classe operaia e tra gli immigrati (compresi molti bambini).
      Anche se i dati riferiti al sud ci riportano un lieve miglioramento, soprattutto in termini di intensità, il divario con il nord continua ad essere evidente. Circa il 65 per cento delle famiglie povere risiede infatti nel Mezzogiorno, con una percentuale pari quasi al 20 per cento del totale delle famiglie meridionali.
      Diminuisce, invece, la povertà tra le persone che vivono sole, in particolare tra gli anziani e tra le coppie di anziani (anche se i tassi di povertà risultano tripli rispetto a quelli dei singoli e delle coppie con meno di sessantacinque anni).
      Si accentua la convergenza tra l'incidenza della povertà fra le famiglie in cui la persona di riferimento è un uomo e quelle in cui è una donna (anche se queste ultime continuano a presentare tassi più elevati).
      Risulta comunque ancora molto forte «l'inerzia» dell'andamento del fenomeno povertà.
      Quasi il 70 per cento delle persone in condizione di povertà nel 1994 è rimasto nelle medesime condizioni fino a tutto il 1996. Dall'altro versante è però, fortunatamente, divenuto molto più basso il rischio di diventare poveri: solo il 5 per cento degli individui interessati è passato da una situazione di non povertà a una di povertà, oltrepassando la famigerata «linea di povertà».
      Nel 1997 l'incidenza sul prodotto interno lordo della spesa per le prestazioni di protezione sociale in Italia era pari al 24,9 per cento, inferiore dunque rispetto alla media europea che, invece, era pari al 27,1 per cento. Anche la crescita di questa spesa nel periodo 1990-1997 è stato più contenuto (+ 1,2 per cento) rispetto all'analogo dato europeo (+ 1,5 per cento).
      Inoltre, la spesa sociale italiana risulta fortemente sbilanciata a favore delle pensioni che rappresentano il 65 per cento della spesa totale e il 16,2 per cento del prodotto interno lordo. Ciò ha come ovvia conseguenza che l'Italia occupa il penultimo
 

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posto per la quota di spesa sociale destinata alla famiglia, e l'ultimo posto per le funzioni di disoccupazione, abitazione ed esclusione sociale (dati riferiti al 1997). Anche in una visione d'insieme il dato sulla spesa sociale complessiva risulta piuttosto contenuto. I dati Eurostat registrano un'incidenza sul prodotto interno lordo pari al 24,8 per cento contro la media dell'Unione europea del 28,5 per cento.
      Questa struttura della spesa attenua gli effetti redistributivi dei trasferimenti pubblici, in quanto l'erogazione delle pensioni è direttamente correlata alla vita lavorativa e contributiva della persona e quindi, generalmente, il suo effetto redistributivo non può andare oltre un certo limite. Inoltre, anche a fronte di una spesa pensionistica così incidente rispetto al totale, visto l'elevato numero di beneficiari, gli importi medi sono spesso ai limiti delle soglie di sussistenza. Ad un'ottica riformatrice, che punta ad una progressiva stabilizzazione della spesa pensionistica rispetto al prodotto interno lordo, anche nel medio-lungo periodo, ha concorso in modo abbastanza determinante la riforma del sistema pensionistico del 1995, che ha introdotto il metodo contributivo per le prestazioni pensionistiche, è stata accompagnata, a partire dal 1993, da una serie di altri interventi legislativi finalizzati a contenere la spesa previdenziale nella fase di transizione verso il nuovo sistema. L'applicazione del sistema contributivo è destinata, probabilmente, a rendere meno gravoso l'impegno finanziario sul versante della previdenza e, in particolare, l'onere che deriva dal garantire alle persone con carriere già molto dinamiche una pensione simile al livello di reddito raggiunto negli ultimi anni di lavoro. In primo luogo queste cifre risparmiate dovrebbero essere destinate alla tutela del rischio economico legato alla disoccupazione, attualmente sottotutelato, uno dei principali fattori che causano la povertà.
      Se si analizzano altre forme di trasferimenti pubblici, si può notare come un maggiore effetto redistributivo sia originato dalla erogazione di contributi per il sostegno ai carichi familiari e dagli ammortizzatori sociali relativi alla disoccupazione e alle pensioni sociali (rispettivamente oltre il 90 per cento e il 70 per cento delle risorse erogate è destinato alle famiglie con reddito inferiore alla media), mentre solo il 40 per cento delle pensioni erogate è destinato alle famiglie con reddito inferiore alla media.
      In ogni caso, se andiamo a vedere il dato monetario, vediamo che una quota di spesa sociale va comunque a beneficio delle famiglie più ricche. Se si prende in considerazione l'insieme dei trasferimenti pubblici ad esclusione delle pensioni, si registra un trasferimento medio di 2 milioni di lire per le famiglie più povere, via via decrescente man mano che cresce il reddito, ma comunque ciò non impedisce che un trasferimento medio di circa 350 euro vada alle famiglie con reddito più elevato.
      Questo quadro denota una scarsa capacità di discriminazione del nostro sistema di welfare rispetto agli alti redditi.
      Un altro fattore assolutamente degno di rilievo è costituito dall'alto numero di famiglie povere che non ricevono affatto forme di trasferimento pubblico, e cioè quasi 500.000 nuclei familiari oltre la linea di povertà.
      Ciò è dovuto essenzialmente alla storia lavorativa e contributiva dei componenti della famiglia, storia che non consente loro di ricevere redditi da pensione o per la loro età, a causa della loro condizione di bisogno, oppure per l'appartenenza a una categoria che non possiede i requisiti previsti dalla legislazione per accedere a contributi e aiuti pubblici.
      Dall'analisi complessiva dunque, possiamo intravedere alcune delle cause che, oltre a quelle classiche basate fondamentalmente sulla disomogenea distribuzione del reddito, nel nostro Paese contribuiscono ad alimentare la povertà e l'esclusione sociale. Tra queste vi sono sicuramente, il cosiddetto drop out scolastico (e cioè la mancata o discontinua scolarizzazione), la disoccupazione, il fenomeno migratorio e l'urbanizzazione del territorio.
 

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      Il drop out appare molto accentuato nelle regioni del Mezzogiorno, dove sono alte le percentuali di giovani in età scolare che, per differenti ragioni, familiari e sociali, non portano a termine neppure la scuola dell'obbligo, diventando in alcuni casi manodopera a rischio di reclutamento da parte della criminalità organizzata. Il fenomeno dell'abbandono scolastico è comunque presente anche in alcune aree del nord: in particolare nelle zone caratterizzate da un alto tasso di imprenditoria a conduzione familiare. Questo comporta una grande facilità per i giovani (anche per i giovanissimi) di reperire occasioni di lavoro remunerato, il che rende a volte allettante per i giovani scegliere di lavorare, anziché proseguire l'attività scolastica, con un oggettivo aumento del rischio di disoccupazione da bassa qualifica in età più avanzata.
      Un'altra importante fonte di esclusione è costituita dai poveri delle aree urbane, tra i quali vanno inclusi, oltre ai soggetti «senza dimora» (in numero relativamente ridotto, ma con caratteristiche di povertà estrema), una varietà di soggetti (anziani a basso reddito, donne vedove in età avanzata, disoccupati e persone che svolgono attività saltuaria), che nell'insieme arrivano ad avere una consistenza numerica piuttosto rilevante.
      Il fenomeno migratorio rappresenta una causa di esclusione sociale di dimensioni crescenti, caratterizzata non solo da problemi connessi al reddito ma dall'incidenza di sostanziali fattori di emarginazione e di segregazione sociale.
      Questo particolare tipo di fenomeno porta spesso con sé, inoltre, l'aspetto estremamente preoccupante legato alla povertà minorile.
      È quasi un universo a sé, inoltre, il discorso legato alla disoccupazione, che è intrinsecamente legato alla sussistenza e alla qualità della vita. Il problema è diffuso in tutta Europa: attualmente i disoccupati europei sono 15 milioni di persone (circa il 10 per cento del totale della forza lavoro) soprattutto donne, e il tasso di occupazione nella classe di età tra i 55 e i 65 anni è estremamente basso. Uno degli elementi degni di nota è la disoccupazione (cosiddetta «strutturale») di lungo periodo. In Italia questo tipo di fenomeno è favorito dalla particolare struttura del mercato del lavoro: il permanere per lungo tempo nell'area della disoccupazione, in assenza di iniziative di riqualificazione del soggetto spesso crea fenomeni di esclusione sociale anche quando intervengono i sussidi monetari. Un aspetto specifico della situazione del mercato del lavoro in Italia è poi quello dell'alta percentuale di giovani in cerca di prima occupazione da oltre dodici mesi (lunga durata) nelle aree a più alto tasso di disoccupazione del Mezzogiorno. Questo fenomeno che può riguardare anche soggetti con livelli medio-alti di scolarità (diplomi di scuola secondaria, alcuni tipi di laurea) è anche una delle fonti che alimentano le attività irregolari e di lavoro nero. Le caratteristiche sociali della famiglia di origine esercitano, e questo è innegabile, un ruolo molto importante nella ricerca della prima occupazione: i figli dei lavoratori autonomi sembrano godere di canali privilegiati nell'accesso a un lavoro, mentre meno fortunati appaiono i figli di operai e di impiegati. La famiglia è il canale migliore per trovare il primo lavoro. Circa il 60 per cento dei giovani trova un'occupazione per mezzo della famiglia, delle conoscenze e delle amicizie. Solo il 15 per cento per meriti e capacità proprie, e solo il 2 per cento tramite l'ufficio di collocamento. Bisogna tenere conto del fatto che nell'attuale struttura sociale la famiglia si trova a svolgere funzioni accresciute: nel 1990 il 51,8 per cento dei giovani dai diciotto ai trentaquattro anni viveva ancora con i genitori, nel 1996 erano diventati il 58,5 per cento. L'aumento è risultato più evidente per i giovani tra i venticinque e i trentaquattro anni. Il «welfare familiare» garantisce in molti casi il reddito, la residenza, l'assistenza anche in strati sociali della popolazione non molto abbienti, tenendo, inoltre, presente che in Italia solo l'8 per cento dei disoccupati riceve un intervento di sostegno al reddito, contro il 42 per cento della media dell'Unione europea. Esiste dunque anche un carattere
 

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«generazionale» della povertà. In Italia, secondo gli ultimi dati, risultano poveri oltre 1,7 milioni di minorenni, dei quali 1,4 residenti nelle regioni del Mezzogiorno. Questo significa che circa due terzi della popolazione povera del sud ha meno di ventiquattro anni. La situazione sopra illustrata, a dire il vero abbastanza preoccupante, si è venuta stratificando anche per la mancata utilizzazione, fino ad ora, di alcuni tra gli strumenti specifici di lotta e di contrasto alla povertà, come, ad esempio, il reddito minimo di inserimento, la pensione sociale, la previsione e la creazione di fondi speciali. È importante constatare che la strada intrapresa negli ultimi anni dai governi del centro sinistra è stata quella giusta (con la sperimentazione del reddito minimo di inserimento, l'introduzione di alcuni strumenti a tutela della famiglia, come l'assegno per il terzo figlio, l'indennità di matemità) e il presente disegno di legge si inserisce, a nostro parere e nelle nostre intenzioni, nel solco tracciato dal lungo lavoro che è sfociato in quella che non possiamo non considerare una «vittoria» e, comunque, un significativo passo in avanti, e cioè nell'approvazione della legge di riforma degli interventi in materia di assistenza, lavoro ampiamente confermato dalla finanziaria approvata per il 2001. Si tratta l'Italia di un passaggio storico in un settore, quello del welfare, che, dai tempi della cosiddetta legge Crispi (legge 17 luglio 1890, n. 6972), non era mai più stato regolato in maniera organica.
      La nuova normativa ha sposato una nuova accezione del concetto tradizionalmente riconosciuto di «assistenza», facendolo passare da quello di «luogo di bisogni che possono essere discrezionalmente soddisfatti» a una «concezione di protezione sociale attiva, luogo della cittadinanza, secondo i princìpi di un moderno universalismo selettivo orientato alla costruzione di un sistema integrato di servizi e prestazioni, un sistema a più protagonisti, istituzionali e della solidarietà, caratterizzato da livelli essenziali di prestazioni, accessibili a tutti, in particolare a chi vive in condizioni di fragilità sociale».
      L'articolo 1 del presente disegno di legge riconosce la necessità di effettuare interventi volti alla rimozione delle cause e delle conseguenze della povertà e dell'esclusione sociale.
      L'articolo 2 istituisce il Piano nazionale annuale per la lotta alla povertà e all'esclusione sociale, predisposto dal Presidente del Consiglio dei ministri, di concerto con il Ministro per la solidarietà sociale e con il Ministro dell'economia e delle finanze.
      Nell'articolo 3 vengono illustrati i contenuti del citato piano, mentre nell'articolo 4 si prevede la necessaria inclusione nella legge finanziaria delle azioni contenute nel medesimo.
 

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